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La storia della cucina orientale in Italia è una storia di migrazioni: i primi migranti cinesi arrivarono in Italia negli anni Venti del Novecento, provenienti principalmente dalla provincia dello Zhejiang. Si stabilirono a Milano, primo insediamento che scatenò un effetto a catena riguardo l’intensificazione del flusso di migrazione. La presenza in Italia di una rete migratoria in grado di fornire sicurezza dal punto di vista abitativo, economico e lavorativo rimase il punto centrale del secondo flusso migratorio che si sviluppò a partire dalla fine degli anni Settanta; buona parte dei cinesi che oggi vivono nel nostro paese vi sono giunti o vi sono nati nell’arco degli ultimi 30 anni, ma molti di loro provengono dagli stessi villaggi di montagna da cui erano partiti i loro avi prima della Seconda guerra mondiale.

Se inizialmente le migrazioni rappresentarono un tentativo di fuga dalla povertà, a partire dagli anni Ottanta diventarono un mezzo tramite il quale riuscire a raggiungere traguardi progressivi: da trovare lavoro da dipendente, ad essere titolare di una piccola azienda, sino a diventare proprietario di numerose imprese.

Per quanto riguarda invece la popolazione giapponese, per osservare una migrazione sostenuta verso l’Italia si dovette attendere la seconda metà del Novecento, dopo la Seconda guerra mondiale. La nascita di una vera e propria comunità giapponese nel nostro paese (e in UE) si verificò quindi con modalità e caratteristiche estremamente differenti rispetto alla comunità cinese.

L’arrivo di consistenti flussi migratori e la globalizzazione del mercato italiano favorirono una grandissima diffusione di modelli alimentari. Dagli anni Novanta ad oggi il mercato dei prodotti alimentari etnici, intesi come quei prodotti di provenienza extra-UE che non vedono presenza tradizionale e consolidata all’interno della nostra alimentazione, raddoppiò. L’aumentato interesse verso abitudini alimentari extra-UE non si tradusse solamente nella crescita della vendita al dettaglio di prodotti alimentari, ma anche nell’aumento delle attività di ristorazione specializzate in cibo etnico.

Il primo ristorante cinese venne aperto a Roma nel 1946, però solo dagli anni Sessanta/Ottanta il settore iniziò a svilupparsi attraendo più clientela. Negli anni Sessanta la ristorazione asiatica era ancora un fenomeno piuttosto limitato che interessava principalmente turisti e uomini d’affari in viaggio; nel decennio successivo la capacità di adattamento al contesto italiano dei ristoratori cinesi portò ad una popolarizzazione di questi locali. Nacquero ristoranti caratterizzati da un abile uso del proprio capitale etnico e da marcata capacità di adattare il proprio menù al gusto italiano; adottarono la divisione italiana del pasto in antipasti/primi/secondi/dolci.

Negli anni 2000 si assistette ad una grande opera di diversificazione, con la nascita di ristoranti di cucina cinese e giapponese “all you can eat”, e sushi bar. Molti ristoratori cinesi iniziarono a convertire le proprie attività in ristoranti giapponesi dando il via al processo di popolarizzazione di questa cucina in Italia. Un elemento curioso che facilitò l’ingresso dei cinesi nel settore della ristorazione giapponese in Italia fu la somiglianza dei tratti somatici (tra cinesi e giapponesi) associata alla frequente incapacità da parte della clientela occidentale di distinguere un cuoco giapponese da uno cinese. Ad oggi il sushi risulta essere la pietanza etnica più diffusa e apprezzata in Italia e sembra rientrare in quella categoria di cibo etnico che, rispondendo al sempre maggiore desiderio di un’alimentazione “naturale”, viene classificato ed inteso come salutare, perciò particolarmente apprezzato dai consumatori italiani.

Lascio il link dell’elaborato dal quale preso spunto per raccontare tutte queste belle informazioni per un eventuale approfondimento: http://hdl.handle.net/10579/22559

Personalmente credo che la cucina cinese e giapponese siano estremamente curiose, in grado di fornire sapori nuovi rispetto alla dieta/cucina mediterranea, e in grado di insegnare nuove tecniche, che possono essere sfruttate anche per la preparazione di pietanze più tradizionali. Alle spezie attribuisco un grande valore, in quanto prodotti che permettono di arricchire i piatti di gusto e di conseguenza ridurre il consumo di sale (riduzione altamente consigliata per la popolazione italiana); inoltre possono essere sfruttate per rendere appagante un’alimentazione semplice e sana.

Riguardo al consumo di pesce crudo, risulta necessario prestare attenzione: sino a pochi anni fa ero scettica al riguardo, ma da quando mi sono decisa ad assaggiare il sushi non riesco più a farne a meno; sono estremamente consapevole però che ogni volta che lo consumiamo “ci deve andare bene”, mi spiego meglio: il Regolamento 1276/2011 obbliga all’abbattimento di tutti i prodotti ittici destinati ad essere somministrati crudi, con parametri di tempo e temperature pari a -20°C per 24 ore oppure a -35°C per 15 ore; si tratta di parametri ottenibili per mezzo di un abbattitore di temperatura, per la maggior parte dei casi non disponibile a livello casalingo. La soluzione per sostituire l’abbattitore corrisponde alla conservazione del pesce in congelatore domestico per almeno 4 giorni.

L’abbattimento del prodotto garantisce sicurezza nei confronti del parassita Anisakis e delle sue uova, in quanto non ne permette sopravvivenza, ma non riguarda i microrganismi patogeni e virus che potrebbero (per qualsiasi motivazione) essere arrivati a contatto con il prodotto. La causa di ciò è che l’abbassamento della temperatura (il freddo) non sterilizza gli alimenti, ma determina un effetto batteriostatico su batteri e virus, ovvero un effetto di rallentamento della crescita, motivo per cui nel momento in cui le temperature ritornano più elevate la crescita si può riverificare. Nonostante ciò, come dicevo, mi viene difficile rinunciare al sushi, quindi? Quindi cerco di assicurarmi un consumo in un ristorante di fiducia, mentre nel momento in cui decido di dedicarmi alla preparazione personalmente mi reco da pescivendoli fidati, spiegando quale sarà l’utilizzo del prodotto, di modo da ricevere consigli sulla conservazione e trattamento più idoneo da svolgere.

Ma è vero che il sushi è sano? Questa domanda mi viene fatta spesso, e la risposta è: dipende da come viene realizzato. Se pensiamo alle singole materie prime sicuramente potremmo rispondere che corrisponde ad un’alimentazione estremamente salutare: riso, pasta, salmone, tonno, avocado, gamberi, uova… Se tutto questo viene aggiunto di salse, sottoposto a frittura ed arricchito in qualsiasi modo, è goloso, è buonissimo, ma non corrisponde ad un regime alimentare adatto a tutti i giorni. Il mio consiglio è l’equilibrio: propongo il mio esempio: vado matta per il sushi e spesso ho voglia, motivo per cui quando ho l’occasione organizzo una cena con gli amici: considerandola in quei 1-2 pasti a settimana in cui sto senza pensieri, senza privarmi delle pietanze più golose. Quando invece voglio cercare di soddisfare la mia voglia di sushi ma rientrare in un pasto sano ed equilibrato, lo preparo in maniera più semplice… Se vuoi un esempio curioso fai “clic” sull’articolo “ONIGHIRI, SANI ed EQUILIBRATI”.

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